Zebra | Blanco

Alla fine arrivano loro, i “The dark side of the Veneto”, lo so che questa pink floydata più che d’effetto è azzardata e che sembra un po’ il nome di una sagra di radicchio in provincia di Treviso, ma non lo è. Loro sono gli Zebra, un plurale neutro maschile che signoreggia elegantemente con tanto ti striature bronzee e che, con enfasi pacata, schiaffa un video in rete senza tanti “se” e senza tanti “ma”. Che dire, il video è figo, ma non figo nel senso che è bello, che ha stile; no, è figo nel senso che lo si guarderebbe continuamente. Pensate un po’, è cosi figo che vorrei darne un’interpretazione altrettanto “fica”, ma non ci riesco. Perché il video della canzone “Blanco” non può avere un senso, o perlomeno può avercelo ma non spetta a noi darglielo. Il bianco contiene tutti i colori dello spettro elettromagnetico mentre il nero è l’assenza di colori. I colori delle Zebre sono proprio il nero e il bianco; il tutto e il nulla, la vita e la morte, eros e thanatos, la gioia e lo sconforto che coesistono in perfetta sinergia. Su wikipedia dicono che la striatura che caratterizza questi simpatici equidi sia un fenotipo svantaggioso dal punto di vista evolutivo. Ma gli Zebra (i bipedi) evolvono, eccome se evolvono, evolvono come la loro musica e nel farlo il loro alone di mistero, di bianco e di nero, finora, non sembra essere stato un intralcio.
Il video, anche se delinearne un senso può apparire complesso, riesce a rendere chiaro l’invisibile, riesce a dare vita ad ogni singola nota, riesce a farla pulsare, a farla echeggiare con un’armonia magistrale.
Ogni singola scena contiene al suo interno mille sfumature che rendendo giustizia al titolo laconico ma concettuale, raccolgono mille colori che sembrano accoccolarsi su un giaciglio di piume.
La scena dei nonni di Andrea ai piedi del monumentale Tempio di Possagno fa commuovere, fa pensare, offre una chiave di lettura immediata. Tutto è immediato, basti pensare all’armonia dei volti immortalati, alla loro malinconia giustificata, la quale riesce a trasmettere una serenità contagiosa.
Tutto appare fluido e alla domanda “qual è il senso di tutto” riesco a rispondere, con semplicità; conosco Giacomo da molti anni e il suo volto riesce a rispondere in maniera esauriente a tutte le mie domande.
Ripenso alla domanda che feci a Luca e Andrea su quale fosse il loro genere; quando, la loro risposta fu “tropical post grunge”, la mia ignoranza in materia musicale mi precluse di comprenderne il significato. Se ora, qualcuno mi domandasse il significato di tale definizione, probabilmente non saprei darne una risposta, mi limiterei a dire che gli Zebra fanno tropical post grounge, che nel loro minimal style riescono a raccontarmi i colori, a rendere limpido quel che sta al di là dell’immaginazione e che questo, mi piace un sacco.

Rabbia

Che poi, chissà per quale ottusa presunzione, noi giovani abbiamo l’ingenua convinzione di essere immuni a tutto, convinti che a difenderci ci sia il caldo vaccino della gioventù.
Forse perché pensiamo che la vita sia un ciclo giusto, dove si nasce, si cresce, ci si riproduce e alla fine (tanto alla fine) si muore. Forse siamo un po’ come gli alberi, che sono cullati dalle stagioni, le quali appoggiano in maniera calibrata le loro esigenze dando foglie e fiori al caldo e riposo al freddo. Siamo come gli alberi, forse meno longevi, ma con la stessa convinzione che qualcuno ci sostenga dall’alto dandoci la certezza di sopperire alle nostre vicissitudini. Come gli alberi, abbiamo la stessa esigenza di equilibrio e la voglia maledetta, che s’insinua dalle radici al terreno, di raccogliere la linfa della vita, quella bella, quella spensierata. Non ci curiamo delle piogge, delle tempeste e delle intemperie; siamo giovani, nessuno può buttarci giù.
Forse pensiamo che la vita sia un processo giusto, dove il giovane vive e si diverte e il vecchio lentamente si spegne, come una candela, che pian piano ingannata dal vento si consuma.
Ma quando la natura, o un Dio derisorio, cambia le carte in tavola e inverte i tempi vitali e si porta via una persona giovane, è il gelo, un gelo che brucia, e t’invade le membra, ti paralizza.
Allora ci incazziamo, imprechiamo e diciamo “Dio, dove cazzo sei? Esisti? O sta storia della vita è una presa per il culo, bella e buona?”. Perché a me personalmente crollano le certezze.
Anche se non lo diamo a vedere, in qualcosa dobbiamo pur credere, qualcosa di reale, formale, informale, concettuale, spirituale; qualcosa in grado di regolare tutti gli equilibri, onestamente.
Perché è così tutto ingiusto? Perché una giovane vita deve essere estirpata dalla bambagia degli anni più belli e sereni dell’esistenza umana? Perché un vecchio, senza più dignità, con una badante che gli pulisce il culo e con le piaghe sulla schiena continua a vivere, soffrendo e urlando dai dolori lancinanti e magari non riconoscendo più le persone che gli stanno care? Perché? Cos’è? Un dispetto? Dio, ti diverti? O ancora, perché le persone di merda, quelle cattive, senza scrupoli continuano a vivere? Perché non ti prendi la loro di vita? Dio ma cosa sei?.
Io mi arrabbio, io sono incazzata. Forse Dio è come un politico che si è montato la testa e che dopo aver posato le sue chiappe (calde o fredde) su di una confortevole nuvola di panna se ne fotte e, dall’alto della sua spavalderia, (perché lui è Dio, Il Signore) può permettersi di invertire il corso delle stagioni, mettere a repentaglio la vita dell’albero sballandone il bioritmo oppure prendersi la vita di un giovane che ha tutta l’esistenza davanti al posto di quella di un vecchio che la sua, l’ha già vissuta.
Con questo non voglio sembrare cinica nei confronti dei vecchi; io rispetto i vecchi. Però ho visto i vecchi soffrire; non un vecchio o una vecchia qualsiasi; ma mia nonna e mio nonno. Mia nonna per me è stata come una seconda mamma, un punto di riferimento costante, la mia “radice” forte, salda. Mi ha seguita, sempre, con amore, ma amore vero quello con la “A” maiuscola. Da un giorno all’altro ha iniziato a non riconoscerci più, pian piano ha perso l’uso delle gambe, pian piano non riusciva più a deglutire il cibo. Siamo stati costretti a metterle un “sondino naso-gastrico” per continuare a nutrirla e non farla morire di fame. Indossava il pannolone e aveva una badante che si prendeva cura (forse) di lei e delle sue esigenze. Ora a te, Dio, sembrerà tutto normale, tutto a posto. Mia nonna però, devi sapere che era una delle persone più pudiche e più delicate del mondo. Mai si sarebbe voluta vedere così, mai avrebbe voluto un estraneo in casa a pulirle il culo, mai avrebbe voluto smettere di mettersi il rossetto e i vestiti che tanto le piaceva creare. Aveva paura del male; ha sofferto tre anni su di un letto ortopedico schifoso, e per morire ha fatto una fatica bestiale. Perché anche se questa vita non lo meritava, lei l’amava e amava il legame profondo che aveva con i suoi figli e nipoti. Ora magari mi starai accusando, starai dicendo “Ma-perché-allora-non-sei-rimasta-tu-a-prenderti-cura-di-lei?”. Io ti rispondo, subito, a tono, non ho paura di parlare con te dio, eh si l’ho scritto volutamente con la “d” minuscola perché in questo momento non ti porto rispetto, non ti onoro, sono incazzata. Perché io mi sono comportata come te, egoisticamente, vederla così mi faceva male e andavo poco a trovarla. Mi sono comportata da stronza, lei ha dedicato la sua vita a me, a mio fratello, ai miei cugini e prima ancora ai suoi figli. Io quando entravo in quella stanza mi sentivo un peso enorme, all’altezza del cuore che pian piano saliva e mi bloccava il respiro, il pensiero. Avevo il mal d’anima. Mi sentivo impotente e devo ammettere che spesso pregavo perché tu la sollevassi da tutte quelle sofferenze anche se allo stesso tempo avrei voluto averla, anche così, per sempre. Lo stesso epilogo ha avuto l’esistenza del mio nonno paterno che è spirato davanti ai miei occhi.
Spero che tu ora abbia capito le mie motivazioni. Spero che tu ora, possa ragionare un pochino sulle tue azioni.
Ma Dio, se esisti, batti un colpo! Perché se esisti, permetti che un ragazzo di vent’anni muoia in uno stupido incidente stradale? Se esisti, perché permetti che ci sia ancora gente che muore di fame? Se esisti, perché permetti che la gente sia permeata da angosce e paure? Perché acconsenti alla malvagità di persone che con una maglia arancione uccidono innocenti e distruggono cuori come distruggono le città?
Sei stanco? Cambia lavoro! Nessuno ti obbliga a continuare. Se questa è una punizione, allora non metto bocca. Sto zitta, però sappi che Mattia non c’entrava, Raffaele neppure e con loro nemmeno Enrico, Barbara, Giuliana, Matteo, Filippo, Amos. Vite giovani, troppo, che tu hai deciso di portare via.
Però ora sono più serena, lo ammetto, anche se “serena”, rimane ancora una parola “grossa”.
Ieri sera sono uscita con alcuni amici e amiche a bere qualcosa, perché è questo che dovrebbe fare una persona giovane, sai? Uscire, divertirsi, parlare e non morire; funziona così e se non lo sai, te lo dico io. Stavo parlando con un’amica, quando ad un tratto ho visto avanzare verso di me un ragazzo sbilenco. Quel ragazzo lo conoscevo! Si era presentato a me un mese fa; pensa che storia buffa; pensavo fosse ubriaco.
Ero al telefono che passeggiavo e, ho notato con la coda dell’occhio un ragazzo che, nel frattempo, si era messo a parlare con le mie amiche. Alto, elegante, con la faccia da bambino.
Mi avvicinai e gli chiesi “E tu chi saresti?” lui si presentò a me con un modo di fare così spontaneo, aperto che subito pensai “Sto qua, è ubriaco!”. Pensa te che sciocca sono stata, forse l’ho anche deriso in buona fede, perché purtroppo non siamo più abituati a sorridere, a parlare, a conoscerci e, quando qualcuno si avvicina, innalziamo una difesa muraria che non ci permette di aprirci all’altro. Parlammo un po’ e quando lui iniziò ad allontanarsi, notai che si muoveva in maniera scentrata e trascinando una gamba. Mi dispiacque un mondo vedere un ragazzo così giovane in quelle condizioni.
Ma torniamo a noi, dicevo, ieri sera ad un tratto vidi questo ragazzo (si chiama Giovi) , lo chiamai e venne verso di noi. Iniziammo a parlare. Mi ha parlato dei suoi sogni, dei suoi impegni, dei suoi successi, della sua gioia. Poi ad un tratto mi ha raccontato di un incidente di cui è stato vittima sette anni fa. Si trovava in vacanza con amici dei suoi, quando la macchina dove viaggiava incombé in un frontale con un’altra auto. Il guidatore, padre del suo migliore amico, morì sul colpo e lui e il suo amico entrarono in coma. Giovi rimase in coma per venti giorni e il suo amico, dopo pochi giorni spirò. Giovi si risvegliò e ieri sera a metà tra commozione e gioia mi raccontò questa vicenda. Il ragazzo che morì e che si trovava nel letto affianco al suo era il suo migliore amico e parlandoci di Chicco, Giovi alzava lo sguardo speranzoso verso il cielo. Mi sentivo una stupida, avevo le lacrime che uscivano a dirotto ma sentivo che stavo sciogliendo pian piano quel macigno di rabbia che gravava sul mio cuore.
Io, che sono una rompi scatole, chiesi a Giovi: “Ma Giovi, tu credi in qualcosa dopo tutto quello che ti è successo?” e lui posandomi la mano sulla spalla mi disse: “Barbara, tante volte ho pensato anch’io che forse non c’è nessuno lì. Se ci penso, la vita mi ha tolto tanto, il mio migliore amico, mia nonna e anche una vita normale; ma mi ha dato ancora di più, una famiglia fantastica, una nonna affettuosa e mi ha dato una seconda opportunità. Quindi quando sei triste, guardati attorno, guarda che bella la natura che ti circonda, guarda la tua famiglia e guarda che bello che è l’acrobaleno”.
Dopo questa esperienza, non so se credo in te o in qualcun altro, una cosa però sono riuscita a capirla bene; credo nella bellezza dell’arcobaleno, nella forza delle persone e soprattutto nella vita.

Gino Del Monte: il fotografo con la penna

Lo scultore scolpisce, il pittore dipinge, l’architetto progetta, la mamma allatta e il bambino piange. I parallelismi possono apparire azzardati e forse lo sono, ma quando oltre alla tecnica c’è ben altro, si può parlare di un’abilità innata. La maternità nella donna è innata come del resto il pianto del bambino, con lui nasce e in lui si esaurisce. Gino Del Monte mangia, beve e disegna. L’arte della penna, dell’acrilico, dell’acquerello in lui è insita. Le sue mani quando prendono in mano un oggetto in grado di porre inchiostro in una superficie, creano, elaborano, danno vita. Ma non una vita prettamente figurativa, bensì una vita pulsante, fremente che a stento sembra volersi trattenere entro la superficie bidimensionale del foglio. Le sue opere sono iperrealiste, vanno ben oltre. I soggetti da lui rappresentati sembrano nascere da un’operazione serigrafica se non fotografica. Se la fotografia disegna con la luce, Del Monte disegna con la penna, con le emozioni. Ma il suo modus operandi non è automatico, come si potrebbe evincere dai suoi ritratti, ma ponderato, mistico. Con i soggetti rappresentati, l’artista crea un rapporto sinergico, di stima, d’idolatrazione e di amicizia. Lo scopo di Del Monte è stupire, sfiorare la perfezione tangibile solo nella pellicola fotografica. Forse vuole spingersi ben oltre, vuole che l’osservatore una volta approcciato il foglio si ritrovi immerso in un’atmosfera straniante dove possa risultare impercettibile il confine tra disegno e fotografia e che questo limite sottile sia sconfitto solamente a contatto ravvicinato con l’immagine. Le opere che più lo rappresentano sono sicuramente “Katartika” dove un volto femminile viene inondato da uno scroscio d’acqua, così limpida, così corporea che la mano è quasi incuriosita; vuole vedere se realmente si tratta di un disegno e attenzione perché potrebbe rimanere delusa dal fatto che i polpastrelli rimangano asciutti. Ma ci sono altri soggetti che vale la pena citare; come Johnny Depp, Woody Allen, Mina, Dottor House. Tutto viene colto con una minuziosità tale che l’effetto è semplicemente stupefacente. Il tratto è personale, ma ad arricchire questa marcata individualità sono presenti delle spirali. Spirali che parlano di Gino, della sua personalità, del progresso, del ritorno, del cosmo e della natura. Mario Merz credeva che la serie di Fibonacci fosse un sistema in grado di rappresentare la crescita nello spazio di un oggetto. Per lui la spirale era un segno distintivo attraverso cui si manifestava il movimento cosmico e che in ambito matematico aveva la perfetta traduzione nella suddetta serie di Fibonacci. In Gino come per Mario, l’utilizzo della spirale è riconducibile a un ciclo continuo di trasformazione che regola il cosmo, proiettandolo all’infinito.

Start

Mi sono cimentata in questa nuova esperienza per riuscire a fare della mia passione un lavoro. Nella mia testa frullano sempre migliaia di idee e, con una mano davanti e una dietro, ho deciso di esplorare questo nuovo sentiero. Scrivo da sempre e da tre anni lavoro come giornalista freelance, coniugando la mia passione per la tastiera allo studio della storia dell’arte. La mia carriera è iniziata grazie alla redazione di comunicati stampa nel settore artistico e sportivo.

Un grazie particolare va a Haunting Laura alias Ange Zulian che mi appoggerà come graphic designer in questo nuovo progetto e che, tra le altre cose, ha curato l’immagine di questo sito, ancora acerbo ma che, pian piano, prenderà forma.

Curerò personalmente la stesura di comunicati stampa in italiano, inglese e spagnolo e mi impegnerò al massimo per pubblicizzare i vostri eventi e/o progetti di qualsiasi tipo.

Contattami via mail: barbara.luciana.cenere@gmail.com

Scelte

I miei piedi accarezzano sentieri scoscesi e inospitali; almeno credo. Forse trovo così scomodo camminare su questa via perchè la mia pelle è ancora fresca, acerba, delicata. Non sono pronta al contatto con le spigolature aride delle pietre abbandonate. Non sono pronta a togliere le radici dal terreno morbido e materno. Non ho provato il duro lavoro, quello che tempra, quello che ti fa rosolare al sole cocente o indolenzire su di una sedia in un ufficio ammuffito. Si, sarà sicuramente per quello, devo ancora fare i conti con quelle che sono le difficoltà di questo viaggio che chiamiamo “vita”. Quando non trovo risposte chiedo conforto alla natura e lei, con i suoi moti perpetui e con la sua sete di rinnovamento, mi avvolge tra le sue braccia calde. Mi protegge come una mamma che stringe il corpo morbido e delicato di un bambino, come una gatta che allontana i propri cuccioli dai pericoli. Guardando l’immensità di quello che mi circonda mi sento piccola. Però non mi posso lamentare. Mi sento alla portata di tutto e sono spinta dalla voglia succosa di farmi inondare dalla bellezza dei sorrisi, dal calore degli alberi in fiore, dall’immeditezza delle cose semplici”. Ero sola. La pioggia violava i vetri della mia camera. La voce del vento si faceva sempre più prepotente, decisa, motivata. Io me ne stavo seduta. Avevo appena finito di pulire la soffitta a casa dei miei quando, tra un libro e l’altro, un vecchio cassetto semi ammuffitto decise di sputare un vecchio diario. La copertina era di pelle verde e le pagine puzzavano di cose dimenticate. Non sapevo a chi appartenesse, so solo che la mia curiosità era esponenziale. Volevo aprirlo ma avvertivo un senso di angoscia, di colpa, di invasione. Perchè avrei dovuto farlo? Perchè avrei dovuto leggerlo? Non riuscivo a resistere e, così, iniziai a sfogliarlo. Il pensiero che ho scritto all’inizio è quello che era stato collocato sulla prima pagina. L’inchiostro era nero e la grafia era quella di una ragazzina. I tratti erano marcati come gli occhi di un nativo orientale e la secchezza era la stessa di chi si era fatto sopraffare dalla mancanza di autostima. Mia madre bussò alla porta, le sue nocche erano così ossute che, sbattendo contro il legno verniciato, davano vita ad un suono ticchettante e irritato. La feci entrare senza esitazione. Vide che stavo leggendo il diario verde e, accennando un sorriso compiaciuto, disse: “Quel diario lo scrissi io quando avevo la tua età, dove l’hai trovato?”. Immaginavo fosse suo. In ogni pagina e in ogni parola riuscivo a riconoscere una parte di me. Mi pose la mano sulla spalla e mi invitò a leggerlo assieme a lei. Mi sentivo protetta. Tra una risata e l’altra il tempo scorreva velocemente, come granelli di sabbia finissimi che fuggono dalle mani. “Ad ogni età ti sentirai una briciola – mi sussurrò all’orecchio – ti sentirai sempre troppo piccola per quello che dovrai affrontare. Non lasciarti intimorire, non lasciarti abbattere da quello che sta fuori. Devi essere testarda, tenace e cocciuta. Alla tua età stavo iniziando a costruire quello che era il mio futuro. Mio padre, tuo nonno, era un uomo tutto d’un pezzo, aveva la voce roca e conservava nel taschino un piccolo orologio antico “Il tempo è denaro, usalo al meglio e sarai già ricca”. Mi ripeteva sempre queste parole e io non capivo. All’università feci giurisprudenza ma, con il tempo, mi resi conto che quella strada non faceva per me. Mi resi conto che lo feci solo per accontentare mio padre. Quando abbandonai gli studi i miei mi dissero “Bene, fai armi e bagagli e vattene via da questa casa! Da ora in poi dovrai imparare a badare a te stessa!”. Avevo paura, mi sentivo sola, inadeguata e piccola. Qualche volta alla mente mi sfiorò l’idea di abbandonare questa vita terrena. Il mio sogno era fare la curatrice di mostre. Adoravo l’arte e quella sensazione di serenità e pace che riuscivano a trasmettermi i quadri di Matisse. Ti è mai capitato di andare oltre alla materialità? Ti è mai capitato di riuscire a vedere qualcosa al di là delle apparenze? E’ la cosa più bella che ti possa capitare, piccola mia. Più s’invecchia, più ci si cristallizza su di idee che più che al passo con i tempi sono a-spasso-nei-tempi. Non lasciarti scoraggiare da chi è disonesto, sterile nei sentimenti, tirchio o invidioso. Quando sei triste cerca di avvolgere a te tutte le persone che sono in grado di regalarti un sorriso, di offrirti una carezza, di donarti un abbraccio sincero. Io, dopo varie peripezie, sono qui. Curo mostre e tuo nonno non mi ha ancora detto “Sono fiero di te!”. Io oggi sono qui e, con un po’ di consapevolezza, sono riuscita a capire la frase che mio padre mi ripeteva sempre. Io non ho perso tempo; ho cambiato strada più volte ma, alla fine, sono sempre arrivata a destnazione. Ti diedi alla luce all’età di 23 anni. Ero giovane. Devo ringraziare tuo nonno perchè, ora, grazie al suo consiglio sono ricca. Ricca d’amore e soddisfatta”. Quella chiaccherata mi strappò più di qualche lacrima. Dopo un intenso abbraccio io mi alzai e terminai l’immatricolazione all’università.